“Chissà perché gli scioperi li fanno sempre di venerdì”

Immagine di persone ad un corteo

Prima di tutto bisognerebbe verificare se davvero esiste una prevalenza del venerdì tra le giornate in cui vengono proclamati scioperi ma se anche questa verifica negasse la veridicità dell’affermazione da cui siamo partiti temo che sarebbe poco utile, perché il debunking in genere è poco efficace.

Seguiamo quindi un altro approccio e vediamo perché il venerdì è un buon giorno per fare uno sciopero, indipendentemente dal fatto che ci sia o meno una maggioranza di scioperi proclamati nelle giornate di venerdì.

Punto 1: di quali scioperi si parla?

Ci sono scioperi che si traducono in una semplice astensione dal lavoro, scioperi con astensione e presidio davanti all’azienda, scioperi con manifestazione provinciale, scioperi con manifestazione regionale e scioperi con manifestazione nazionale (in genere a Roma).

Provo a raccontare come funziona uno sciopero con manifestazione nazionale perché a quanto mi risulta sono momenti a cui partecipa una sparuta minoranza di persone e può essere quindi che pochi sappiano cosa succeda realmente. Oppure, peggio ancora, può essere che in molti sopravviva il ricordo dello sciopero fatto alle superiori, e quindi la convinzione che lo sciopero di un lavoratore assomigli a quelle belle mattinate di vacanza, senza interrogazioni, in cui si faceva una bella passeggiata in centro insieme agli amici.

Il racconto parte dalla mia esperienza perché non ho altre fonti ma credo sia un’esperienza molto comune.

Da Firenze, il pullman della CGIL per Roma parte intorno alle 7:00 (pensate a che ora partano da Torino o da Palermo). Punto la sveglia alle 6:00, mi alzo, mi preparo e alle 7:00 sono al punto di ritrovo (che non è lontano da casa mia, ma non tutti hanno questa fortuna). Il Pullman parte e intorno alle 11:00 arriviamo a Roma (metro Anagnina). Facciamo la coda per entrare in metropolitana (alle manifestazioni nazionali partecipano decine se non centinaia di migliaia di persone e le metropolitane si riempiono) e intorno alle 12:00 arriviamo al concentramento, il punto di partenza della manifestazione. Dopo un po’ di attesa parte il corteo e per un’oretta abbondante si cammina, fino a quando non si arriva al punto dove si terranno i discorsi. I discorsi durano un’oretta, passata la quale si riparte e, sempre a piedi, si raggiunge la prima stazione della metropolitana aperta (per motivi di sicurezza quelle più vicine al luogo dove si tengono i vari interventi sono chiuse, quindi di solito capita di camminare parecchio), si rifà la coda, si prende la metro e si torna al pullman, dove si riparte alla volta di casa. A Firenze si arriva intorno alle 21:00 (a Firenze… ma pensate a che ora arriva a casa chi parte da Torino o da Palermo).

Quindi, ricapitolando, levataccia alle 6:00, viaggio andata e ritorno Firenze-Roma in giornata (o Torino-Roma, o Palermo-Roma, dipende), tante ore passate a camminare o comunque in piedi, rientro a casa in serata (o in nottata) e il giorno dopo bisognerebbe andare a lavorare?

Ha senso lanciarsi in ardite dietrologie sui motivi reconditi per cui questi scioperi vengano fatti “sempre” il giorno prima di un giorno in cui ci si può riposare?

Punto 2: quanto costa scioperare?

I giorni in cui si sciopera non vengono pagati, come si sa, e considerando una media di 20 giorni lavorativi al mese, conviene ricordare che al lavoratore una giornata di sciopero costa il 5% dello stipendio mensile. A chi ha uno stipendio di 1500 euro netti al mese una giornata di sciopero costa 75 euro. Non sono proprio spiccioli.

Io penso che se una persona decide di spendere 75 euro di tasca propria per fare uno sciopero abbia anche il diritto di scegliere un giorno che gli torni comodo, di unire magari l’utile al dilettevole e far cominciare con qualche ora di anticipo il suo fine settimana. In fondo sono soldi suoi, sono giorni suoi, non c’è veramente ragione di andare a mettere bocca in come decide di usarli.

Quindi, ricapitolando, io non ho elementi per dire se davvero ci sia questa preminenza di scioperi fatti di venerdì, però se anche fosse così a me sembra che ci siano delle ragioni comprensibilissime dietro la scelta di farlo proprio quel giorno.

Andarsene da Google Drive

Da anni i documenti da archiviare (referti di esami, ricevute di pagamenti, buste paga, etc.) sono sempre più spesso in formato digitale. Come conseguenza Google Drive stava diventando sempre di più il mio archivio digitale, senza che lo volessi e senza che potessi fare molto per impedirlo.

Qualche tempo fa, galvanizzato dall’esperienza dell’essermene andato da Facebook, ho cominciato a pensare di togliere il mio archivio da Google Drive e di costruirmi un archivio digitale da affiancare a quello cartaceo, fatto di fogli di carta chiusi in buste di plastica chiuse in faldoni di cartone. L’esperienza è stata positiva e ho pensato di annotare qui qualche passaggio nel caso possa essere utile a qualcun altro/a.

Prima di tutto ho dovuto pensare a cosa io volessi archiviare e a quale scopo dovesse servire l’archiviazione. Da questa analisi sono emerso con una categorizzazione dei miei documenti in:

  1. documenti che voglio avere costantemente a portata di mano (libretto di circolazione, copie dei documenti di identità, etc.);
  2. documenti che vanno conservati (anche per lunghi periodi) ma che non mi serve avere a portata di mano (scontrini, bolli auto, documenti fiscali, ecc.).

Ho quindi pensato a due archivi, uno piccolo per i pochi documenti che serve avere sottomano e uno grande per i documenti che è importante conservare ma che non serve avere sottomano. Solo il primo di questi due era necessario fosse on line mentre il secondo poteva tranquillamente essere realizzato su un supporto di memorizzazione più “tradizionale” (hard disk, chiavette USB, ecc.).

Archivio on line

Per l’archivio on line ho pensato di appoggiarmi al mio sito, ho quindi creato un nuovo sottodominio e ho pensato di installarci qualche applicazione web che mi permettesse di accedere sia per salvare che per visualizzare i documenti, ovunque io fossi (davanti al PC dell’ufficio, davanti al PC di casa, in vacanza, ecc.).

Dopo un po’ di ricerche la scelta è caduta su Nextcloud. Si tratta di un’applicazione con molti moduli di cui però ho deciso di installare solo quello dedicato all’archiviazione di file. Una cosa molto utile è che questo software dispone anche di una comodissima app per smartphone che permette di accedere o di aggiungere file all’archivio ovunque ci si trovi. Lo svantaggio di questa soluzione è che usa spazio disco “pregiato” (quello del mio sito) e quindi più costoso. Per adesso il contratto che ho con il provider è più che sufficiente a memorizzare i documenti che mi interessa archiviare in questa modalità mentre in futuro, se dovessero crescere le mie esigenze, potrò sempre passare ad un contratto di hosting di livello superiore e avere a disposizione uno spazio disco maggiore.

Un altro punto di forza di questa soluzione è che non richiede ci si preoccupi di fare backup né di eventuali problemi di sicurezza (se non quella dell’applicazione stessa), perché di tutto questo si occupa già il provider che mi fornisce lo spazio web e molto meglio di come potrei fare io.

Archivio off line

Per l’archivio off line mi sono orientato verso due chiavette USB da 64 GB, una da usare come archivio e una da adibire a backup. Ho preferito questa soluzione a quella dell’hard disk perché comunque mi offre maggiori possibilità di tenere l’archivio sempre (o quasi) con me. Portarsi dietro l’archivio però significava anche correre il rischio di perderlo e che qualche sconosciuto potesse avere accesso a tutti i fatti miei. Per mitigare questo rischio ho quindi deciso di cifrare entrambe le chiavette con BitLocker, un software per la cifratura che è nativo su Windows ma molto ben integrato anche in Linux (sul mio PC personale uso Ubuntu).

A questo punto ho raggiunto il mio obiettivo: ho un archivio a cui posso accedere ovunque io sia, ma necessariamente di dimensioni più ridotte, e un archivio che (seppure con certi limiti) posso comunque tenere con me, ma di dimensioni enormi (almeno per quelle che sono le mie esigenze di archiviazione).

E così me ne sono andato anche da Google Drive.

Hallowed Be Thy Name – Iron Maiden

"The Number Of The Best" LP cover

Brano disponibile su YouTube.

Hallowed Be Thy Name Sia santificato il tuo nome
I’m waiting in my cold cell when the bell begins to chime Aspetto nella mia cella fredda, sento i rintocchi della campana
Reflecting on my past life and it doesn’t have much time Penso a ciò che è stata la mia vita, non le resta molto tempo
‘Cause at 5 o’clock, they take me to the Gallows Pole Alle cinque mi porteranno al patibolo
The sands of time for me are running low La sabbia nella mia clessidra sta finendo
Running low, yeah! Sta finendo!
   
When the priest comes to read me the last rites E’ arrivato il prete, per l’estrema unzione
Take a look through the bars at the last sights Riesco a buttare un ultimo sguardo oltre le sbarre
Of a world that has gone very wrong for me Ad un mondo dove mi è andato tutto storto
   
Can it be that there’s some sort of error? Può essere un errore?
Hard to stop the surmounting terror E’ difficile tenere a bada la paura che cresce
Is it really the end, not some crazy dream? E’ davvero la fine o è solo un sogno pazzesco?
   
Somebody, please tell me that I’m dreaming Qualcuno mi dica che sto sognando, per favore
It’s not easy to stop from screaming Non riesco a smettere di gridare
The words escape me when I try to speak Quando provo a parlare le parole mi sfuggono
Tears flow, but why am I crying? Scendono le lacrime ma perché sto piangendo?
After all, I’m not afraid of dying Dopo tutto non ho paura di morire
Don’t I believe that there never is an end? Non ho forse fede nel fatto che non ci sia mai una fine?
   
As the guards march me out to the courtyard Mentre le guardie mi scortano verso il cortile
Somebody cries from a cell, “God be with you” Da una cella qualcuno mi grida “Dio ti accompagni!”
If there’s a God, why has he let me go? Ma se c’è un Dio, perché mi ha lasciato?
   
As I walk, my life drifts before me Mentre cammino la vita mi scorre davanti
Though the end is near I’m not sorry Anche se la fine si avvicina non mi dispiace
Catch my soul, it’s willing to fly away Prenditi l’anima, non vede l’ora di volare via
   
Mark my words, believe my soul lives on Fidati, la mia anima continuerà a vivere
Don’t worry now that I have gone Non preoccuparti ora che me ne sono andato
I’ve gone beyond to seek the truth Sono andato oltre, a cercare la verità
   
When you know that your time is close at hand Quando ti accorgerai che il tuo tempo sta per finire
Maybe then you’ll begin to understand Forse allora comincerai a capire
Life down here is just a strange illusion La vita quaggiù è solo una strana illusione
   
Yeah-yeah-yeah, hallowed be thy name Sia santificato il tuo nome
Yeah-yeah-yeah, hallowed be thy name Sia santificato il tuo nome
Steve Harris – LP “The Number Of The Beast” (1982)

 

Al mare ci si abbronza di più sulla spiaggia o sugli scogli?

Donna che si abbronza sulla spiaggia

In estate è una delle domande più gettonate, tutti dicono la loro e chi sono io per non dire la mia? Eccola qui, la mia.

Intanto richiamiamo un paio di principi di fisica che ci sono utili in questo studio particolare:

  • la luce si muove in linea retta. O meglio… nei posti in cui più comunemente si prende il sole funziona così. Le cose vanno invece in maniera sensibilmente diversa nelle regioni di spazio in cui ci sono grandi concentrazioni di masse, tipo in prossimità di stelle e buchi neri, ma voi prendete il sole sulla spiaggia o sugli scogli, non in prossimità di stelle e buchi neri, quindi per quanto ci interessa la luce si muove in linea retta;
  • la parte di radiazione solare che abbronza è quella costituita dai raggi ultravioletti. Il resto della radiazione solare non serve in nessun modo ad abbronzare (ma svolge comunque altri effetti utili, tra i quali quello di evitare che il nostro pianeta si trasformi in una palla di ghiaccio che sfreccia nell’universo priva di forme di vita).

Per abbronzarsi bisogna dunque esporsi ai raggi ultravioletti e, per tornare alla domanda iniziale, dobbiamo chiederci quindi se ne prendiamo di più adagiando le nostre membra sulla spiaggia o sugli scogli.

I raggi ultravioletti che colpiscono i vostri corpi esposti al sole (e dico “vostri” perché io il mio non l’espongo, non sono un amante del genere) li raggiungono muovendosi in linea retta e quindi in due possibili modi.

Alcuni ci arrivano direttamente, ovvero partono dal sole e dopo circa otto minuti e mezzo di viaggio all’incredibile velocità di oltre un miliardo di km/h terminano la loro folle corsa sbattendovi contro e procurandovi tutta una serie di danni, tipo scottature, rughe precoci e tumori della pelle, ma dandovi anche quel bel colore bronzeo che vi piace tanto [1].

Altri ci arrivano per via indiretta, cioè raggiungendo il vostro corpo dopo essere rimbalzati su ciò che avete intorno (ad esempio sabbia o scogli) ma procurandovi gli stessi effetti visti prima, ovvero scottature, rughe, tumori e tintarella.

Dunque una delle vie maestre per massimizzare la velocità della tintarella è legata al massimizzare l’esposizione ai raggi ultravioletti.

Per la componente “diretta” di quei raggi possiamo fare poco. Il Sole è poco incline ad ascoltare suppliche e quindi non lo convinceremo ad emettere quantità maggiori di radiazione ultravioletta in direzione della Terra.

La partita si gioca dunque sui raggi riflessi e quindi la domanda originaria potrebbe essere riformulata in maniera più precisa scrivendo: chi riflette meglio i raggi ultravioletti, la spiaggia o gli scogli?

Qualcuno sostiene la tesi secondo cui superfici chiare rifletterebbero gli UV meglio di superfici scure e arriva così a concludere che le spiagge, in quanto superfici più chiare, sarebbero più adatte alla tintarella rispetto agli scogli (o il contrario, nel caso di scogli chiari e spiagge scure).

Io però non ho trovato evidenze convincenti relative al fatto che la riflessione dei raggi UV possa dipendere in qualche modo dal colore della superficie riflettente, quindi nel prosieguo non prenderò in considerazione questa possibilità.

Cerchiamo di capire allora come il materiale di cui è composta una data superficie (indipendentemente dal suo colore) ne influenzi la capacità di riflettere i raggi ultravioletti.

Per fare questo dobbiamo però introdurre il concetto di “albedo”.

L’albedo è fondamentalmente la frazione di radiazione solare che viene riflessa da una determinata superficie rispetto a quella da cui era stata colpita. Ad esempio, un’albedo dello 0% è quella misurata su una superficie che riflette lo zero percento della radiazione solare che la colpisce, ovvero su una superficie che trattiene tutta la radiazione solare incidente, mentre un’albedo del 100% si misura su una superficie che riflette tutta la radiazione che la colpisce, senza assorbirne neanche una minima parte.

In letteratura sono disponibili le albedo di varie superfici e da questi studi risulta che l’albedo della sabbia asciutta (che varia tra il 15% e il 18%) è maggiore dell’albedo della roccia (di poco inferiore al 4%). Dunque possiamo dire che la sabbia, avendo un albedo maggiore della roccia, è la superficie che riflette meglio i raggi ultravioletti [2].

Consideriamo però che la quantità di raggi ultravioletti riflessa è ridotta, inferiore al 20% ovvero interessa meno di un quinto dei raggi ultravioletti incidenti, e che non è diretta tutta verso di voi che prendete il sole ma viene diffusa disordinatamente in tutte le direzioni. Quindi non solo i raggi che vengono riflessi dalla spiaggia sono pochi ma la maggior parte di loro torneranno verso il cielo o andranno a colpire altro e non voi.

A questo punto penso che possiamo dare una risposta abbastanza precisa alla domanda iniziale.

Al mare ci si abbronza di più sulla spiaggia o sugli scogli?

E’ uguale.

O meglio, magari non è proprio uguale-uguale ma la differenza è così bassa che ci sono chissà quanti altri fattori che saranno più determinanti nello stabilire dove vi abbronzerete di più, e concentrarvi sulla spiaggia o sugli scogli vi farà solo perdere tempo.

Un tempo che avreste potuto spendere più proficuamente nel procurarvi ustioni, rughe precoci, un’aumentata probabilità di tumore della pelle e quel bel colore che vi piace tanto.

L’antinomia del ristorante

Secondo Wikipedia:

L’antinomia (dal greco αντι, preposizione che indica una contrapposizione, e νομος, legge) è un particolare tipo di paradosso che indica la compresenza di due affermazioni contraddittorie che possono essere entrambe dimostrate o giustificate.

Nel seguito userò il termine antinomia riferendomi a due esperienze compresenti nella mia esperienza ma in aperta contrapposizione tra loro. Non posso ovviamente dimostrare la verità di queste esperienze con il dovuto rigore ma, in ragione della loro frequenza, mi permetto di assumerle come dimostrate de facto.

Il riferimento al ristorante invece rimanda all’ambito in cui mi è capitato di notarla per la prima volta.

Esperienza 1: la cena al ristorante con una donna

E’ esperienza comune tra gli uomini che andando al ristorante con una donna l’onere di pagare il conto ricada sulle loro spalle. Come in tutte le vicende umane ci sono ovviamente delle eccezioni ma per quanto riguarda la mia esperienza credo di poter dire che queste eccezioni siano in numero statisticamente irrilevante.

Esperienza 2: il racconto dell’esperienza di cui sopra ad un gruppo di donne

Provando a raccontare alle donne di quanto spesso mi capiti di dover pagare la cena ad una di loro, e quanto raramente mi capiti il contrario, non posso non notare come la stragrande maggioranza di loro tenda a rispondere, in molti casi con indignazione, qualcosa come “ah no… io no… con me si fa metà ciascuno”.

L’antinomia del ristorante è tutta in questa contrapposizione tra il comportamento che sperimento quando siamo al ristorante e la reazione di fronte a cui mi trovo quando ne parlo: al ristorante tutte (o quasi) considerano il pagamento del conto come un dovere maschile mentre quando ne parlo tutte (o quasi) sostengono l’opportunità di dividere la spesa (pagando metà ciascuno o alternando le volte in cui paga l’uomo e le volte in cui paga la donna).

La termodinamica del tè

Teiera in ghisa con tazzine

“I pregi della teiera in ghisa sono molti: esteticamente piacevoli, mantengono a lungo il calore dell’infuso”.

Questa teoria secondo cui le teiere in ghisa manterrebbero a lungo il calore del tè è una stramberia che si legge sulla maggior parte dei siti che trattano l’argomento “teiere in ghisa”.

La ghisa è un metallo e in quanto tale è un ottimo conduttore di calore.

Se così non fosse non potremmo scaldare le nostre case con dei termosifoni (che una volta erano fatti proprio in ghisa), perché il calore dell’acqua calda che circola al loro interno verrebbe trattenuto invece di trasferirsi all’ambiente, riscaldandolo.

E il motore della nostra auto fonderebbe dopo pochi Km se il metallo di cui è composto (e anche qui una volta si usava la ghisa) trattenesse il calore al suo interno invece di dissiparlo.

Quindi tazzine e teiere in ghisa hanno proprio la caratteristica opposta a quella che viene spesso raccontata, ovvero non solo non trattengono il calore ma anzi lo dissipano con una certa velocità.

E fatemi dire che è questo, oltre alla loro piacevolezza estetica, il motivo per cui sono tanto belle: il tè in una tazza di porcellana (materiale noto per le sue caratteristiche di isolante termico) richiede una lunga attesa prima di poter essere bevuto senza il rischio di ustioni mentre in una tazzina di ghisa bastano una trentina di secondi perché si raffreddi fino ad una temperatura tale da essere bevibile.

Attenzione però, l’energia non scompare nel nulla e il calore che viene perso dal tè passa quasi interamente alla tazzina che diventa quindi bollente. Ed è per questo che la tazzina in ghisa, oltre a non dover essere riempita troppo oltre la metà, dev’essere presa il più in alto possibile, per evitare che invece di ustionarsi la bocca si ustionino i polpastrelli.

(Credo sia questo anche il motivo per cui le tazzine in ghisa non hanno il manico: data la temperatura che raggiungerebbe sarebbe del tutto inutile).

Il voto utile

Il voto utile è il voto del cittadino che si informa, riflette, pensa a cosa potrebbe essere più utile per lui, per i suoi cari, per il suo paese, decide per chi votare, va al seggio e vota.

Il voto inutile è il voto di chi preferisce (per pigrizia o scarsa stima di sé) fidarsi di ciò che altri dicono essere meglio per lui, per i suoi cari, per il suo paese.

E’ un voto inutile perché non porta in dote nessuna visione strategica, nessuna energia costruttrice. E’ solo il doppione, il “copia e incolla”, del voto di un altro. Un voto che messo insieme a tanti altri farà certamente massa, ma una massa senza peso, che sposterà equilibri politici, deciderà nascite e cadute di governi, ma che non rappresenta nessuno.

L’utilità di un voto è nel processo che porta alla sua nascita non nel simbolo scelto sulla scheda.

L’idea di democrazia di chi è disposto a votare tappandosi il naso non è poi molto diversa, mutatis mutandis, da quella di chi auspica svolte illiberali: il primo decide di limitare la propria libertà di voto, il secondo si propone di limitare quella di tutti gli altri.

Scelte forse diverse nella quantità dell’errore ma non nella sua qualità. Sono entrambe scelte in cui manca la consapevolezza del valore che ha per le sorti di una società il contributo di razionalità e di etica che ognuno può portare con una scelta cosciente e ragionata.